QUELLO CHE NON TI FANNO VEDERE DIETRO IL CLICK

 


 Dietro ogni click: il lavoro invisibile dei rider

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Negli ultimi anni, l’esplosione delle piattaforme digitali ha trasformato le nostre abitudini quotidiane: con un semplice click possiamo ordinare cibo, fare la spesa, ricevere pacchi a domicilio. Dietro questa comodità, però, si cela un esercito di lavoratori spesso invisibili, mal tutelati e costretti a operare in condizioni precarie: i rider.


Chi sono i rider?


I rider rappresentano una forza lavoro eterogenea, difficile da incasellare in un’unica categoria. Tra di loro troviamo:


Lavoratori migranti: in larga parte uomini provenienti da Paesi extraeuropei, spesso in cerca di un’integrazione difficile e costretti ad accettare qualsiasi tipo di impiego.


Esodati e over 40: ex operai, impiegati o artigiani che, espulsi dal mercato del lavoro tradizionale, si reinventano pedalando o guidando scooter tra le strade cittadine.


Studenti universitari: giovani italiani che, tra una lezione e l’altra, si cimentano nelle consegne per garantirsi un minimo di indipendenza economica.



Nonostante le differenze di età, provenienza e formazione, condividono una condizione comune: l’incertezza. Nessuno di loro ha garanzie stabili, pochi godono di tutele reali, e tutti dipendono da un algoritmo che decide quando, quanto e se lavorare.


Un sistema frammentato: tra finte partite IVA e contratti intermittenti


Le modalità di assunzione variano a seconda della piattaforma. Le principali forme contrattuali sono tre:


1. Collaborazioni autonome (Glovo, Deliveroo)


In questo modello, il rider è formalmente un libero professionista. Tuttavia, nei fatti, il suo lavoro è strettamente eterodiretto: riceve indicazioni precise su tempi, percorsi, orari e viene valutato in base alla sua rapidità ed efficienza. È il cosiddetto fenomeno della “autonomia fittizia”, già smascherato da diverse sentenze giudiziarie.


2. Lavoro subordinato (Just Eat)


Nel 2021, Just Eat ha introdotto un modello contrattuale che riconosce il rider come dipendente. Un’apparente svolta etica, che però nasconde contraddizioni: l’autonomia organizzativa è ridotta e le valutazioni interne restano opache. Inoltre, i meccanismi disciplinari e la gestione della sicurezza sono ancora problematici.


3. Contratti intermittenti


Utilizzati da nuove piattaforme in espansione, questi contratti permettono all’azienda di “chiamare” il lavoratore solo quando serve, senza garantirgli continuità, né un monte ore minimo.


L’illusione della flessibilità


Uno degli argomenti più spesso utilizzati per giustificare questo sistema è quello della flessibilità. “Scegli tu quando lavorare”, recitano gli annunci. Ma la realtà è ben diversa. Il sistema di rating e punteggio interno alle piattaforme obbliga il rider a rendersi disponibile nelle fasce orarie più redditizie – spesso le più faticose o pericolose – se non vuole essere penalizzato.


In questo modo, la libertà di scelta diventa una necessità mascherata. Più turni accetti, più guadagni. Ma se rifiuti o ti assenti, vieni declassato, perdendo l’accesso alle ore “buone”.


Il rischio sulla strada


Il lavoro del rider è esposto a numerosi rischi: incidenti, furti, aggressioni. Tuttavia, la sicurezza è spesso affidata interamente al lavoratore, che deve arrangiarsi con mezzi propri, dispositivi di protezione inadeguati o assenti, e nessuna reale formazione sui rischi.


In caso di pioggia, molte piattaforme incentivano le consegne con piccoli bonus. Un sistema che premia il rischio invece di prevenirlo. E in caso di incidente, il supporto è minimo o inesistente.


Anche Just Eat, pur offrendo contratti di subordinazione, scarica la responsabilità del mezzo di trasporto sul lavoratore. Se uno scooter viene rubato, il rider ha solo pochi giorni per procurarsene un altro, pena la sospensione.


Le disuguaglianze invisibili


Oltre alla precarietà economica, emergono profonde disuguaglianze sociali:


Alcuni rider sono legati a caporali o agenzie intermediarie che affittano account a pagamento.


Altri condividono alloggi sovraffollati, pagano affitti spropositati o dormono in macchina.


Le condizioni offerte possono variare in base all’etnia, al genere o alla disponibilità a lavorare in condizioni estreme.



Dalla pandemia all’oblio


Durante la pandemia, i rider sono stati considerati “eroi”: hanno permesso a milioni di persone di restare a casa, garantendo beni essenziali. Ma, finita l’emergenza, sono tornati nell’ombra, dimenticati dalle istituzioni e ancora sfruttati dalle piattaforme.


Nessuna indennità per chi si ammalava, nessuna protezione reale per chi lavorava in strada. Oggi, la loro situazione è peggiorata: più rider, meno ordini, più competizione. E quindi, meno guadagni.


Le vertenze: una storia di lotta e frammentazione


La prima grande mobilitazione dei rider in Italia nasce a Torino, nel 2018, contro la piattaforma Foodora. Da allora, si susseguono scioperi, incidenti, proteste. Alcuni sindacati firmano contratti con sigle compiacenti (come l’UGL), suscitando l’indignazione dei lavoratori autorganizzati.


Parallelamente, la CGIL porta in tribunale le piattaforme, ottenendo sentenze favorevoli per il riconoscimento della subordinazione. Ma le aziende, nel frattempo, si riorganizzano.


Just Eat sfrutta l’occasione per differenziarsi, promuovendosi come piattaforma etica. Tuttavia, il modello adottato mostra ancora molte lacune.


Le condizioni estreme e la sicurezza assente


In inverno o sotto la pioggia battente, i rider circolano con mezzi precari, giacche logore, zaini rotti. Alcuni modificano biciclette per adattarle al trasporto; altri guidano scooter senza coperture.


Molti non conoscono i propri diritti in materia di sicurezza. Nessuno spiega loro cosa prevede il D.Lgs. 81/2008. Le piattaforme non erogano formazione, non forniscono dispositivi adeguati, non valutano i rischi.


Anche laddove esiste un “protocollo meteo”, come nel caso di Just Eat, la decisione finale di sospendere o meno il servizio ricade sull’azienda. E spesso, si sceglie di continuare comunque.


Conclusione: cosa possiamo fare?


Il sistema del delivery ha cambiato il nostro modo di vivere, ma ha anche evidenziato un modello economico fondato sull’iper-precarizzazione, sulla digitalizzazione senza diritti, sull’individualizzazione del rischio.


Come cittadini, possiamo iniziare a fare scelte più consapevoli:


Informarci sulle condizioni dei lavoratori che consegnano il nostro cibo.


Sostenere le vertenze sindacali e le battaglie per i diritti.


Premiare le piattaforme più virtuose, e boicottare quelle che alimentano lo sfruttamento.



Perché dietro ogni click non c’è solo un panino caldo, ma il tempo, la fatica e spesso la dignità di un essere umano.

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