La Stasi dei Rider: Tra Sindacato, Auto-organizzazione e la Speranza di un Ordine
"Non mi fido dei sindacati." "L'auto-organizzazione non serve a niente." "Mi fermo solo se si fermano tutti." Queste sono le frasi che risuonano nelle PIAZZE , un eco costante di frustrazione di fronte a problemi che affliggono tutti, seppur in modi diversi. Problemi che mordono sul salario, sulla qualità del lavoro e sullo stile di vita.
Le chat pullulano di lamentele. Ogni singolo problema viene sviscerato, discusso, ma quasi mai affrontato collettivamente. Una lamentela continua, un sottofondo costante mentre si aspetta il prossimo ordine, nella speranza di portare a casa qualcosa, qualsiasi cosa.
Partiamo da un presupposto chiaro: sindacati e unioni di lavoratori sono la stessa cosa. Sono gruppi di persone che si uniscono per trovare soluzioni a problemi comuni. Eppure, tra i rider, regna uno stallo, una mancanza di volontà di agire. Si preferisce rimanere spettatori, con la flebile speranza che qualcosa cambi, che "i padroni" – una parola che non è più di moda, proprio come non è più di moda cercare la fonte del problema – si muovano. Invece, troppo spesso, la colpa si riversa sul collega accanto, quello che "ti sta rubando un ordine" che doveva essere tuo.
Questa dinamica ci intrappola in un circolo vizioso. La sfiducia reciproca, l'incapacità di vedere il quadro generale, la rassegnazione a una lamentela individuale. Ma finché non si comprenderà che la forza risiede nell'unione, che sia attraverso un sindacato riconosciuto o una forma di auto-organizzazione, il cambiamento rimarrà un miraggio.
Continuiamo a mettere facce sorridenti, pollici in su o pollici in giù, sempre con il telefono in mano. La nostra rabbia cessa non appena arriva una singola notifica, per poi riprendere dopo quaranta minuti di attesa. Nel frattempo, in questo nostro stallo, le applicazioni macinano vendite milionarie, cambiano algoritmi e qualcuno, magari persone che non conoscono nemmeno il lavoro dei rider, prova a parlare al posto nostro. Ma noi non ci preoccupiamo. Siamo troppo impegnati a cercare il prossimo emoji da inserire o il prossimo commento da digitare.
È una dinamica che ci intrappola. La gratificazione immediata della notifica che ci tira fuori dall'attesa soffoca ogni scintilla di frustrazione, solo per farla riemergere, più forte, al successivo periodo di inattività. Questa rabbia a intermittenza ci impedisce di vedere il quadro generale, di trasformare il malcontento individuale in un'azione collettiva.
Le piattaforme lo sanno. Sanno che la nostra attenzione è frammentata, che la nostra priorità è l'ordine che arriva. E così, mentre noi ci perdiamo nei commenti e nelle reazioni digitali, loro continuano a prosperare, a modellare gli algoritmi a loro piacimento, a gestire le nostre vite lavorative senza alcun confronto.
Ci accontentiamo di uno sfogo virtuale, di un lamento che si dissolve con un "tap", mentre le decisioni che influenzeranno il nostro futuro vengono prese altrove, spesso da chi non ha mai pedalato sotto la pioggia o aspettato un ordine per un'ora.
C'è un Altro Padrone
La nostra pigrizia è tale che non riusciamo nemmeno a capire se siamo subordinati o autonomi. Continuiamo a ripeterci "ma sì, intanto ancora un po' di tempo e poi vado a fare altro", come se "altrove" non ci fosse un altro padrone pronto a fare i propri interessi.
È una scusa comoda, vero? Quella frase che ci auto-assolve, che posticipa la riflessione e l'azione. "Un altro po' di tempo..." e intanto la realtà si solidifica, le condizioni peggiorano, e noi restiamo lì, a metà del guado, né carne né pesce. Il fatto è che questa ambiguità, questa incertezza sul nostro status, fa il gioco di chi sta dall'altra parte. Se non sappiamo chi siamo, come possiamo rivendicare i nostri diritti?
E l'illusione del "vado a fare altro" è forse la più pericolosa. Come se il mondo del lavoro fosse un paradiso di autonomia e giustizia, dove i "padroni" – sì, quella parola che è fuori moda ma descrive bene chi detiene il potere – non esistono. Ma la verità è che ovunque ci sia lavoro, ci sono interessi da tutelare, e non sempre sono i nostri. Cambiare piattaforma, cambiare settore, non significa automaticamente cambiare le dinamiche di potere.
Finché non faremo i conti con questa pigrizia, con questa tendenza a rimandare la decisione e l'azione, saremo sempre in balia degli eventi. È ora di smettere di sperare in un futuro migliore che arriva da solo e iniziare a costruirlo.
L'ho chiesto a un'applicazione, a un'intelligenza artificiale. "Crea un blog", ho detto. E lei, senza battere ciglio, ha vomitato testo, strutturato, persino con un titolo accattivante. Mi ha dato un "suggerimento" pronto all'uso. E la cosa più inquietante è quanto questo sia diventato normale, quanto sia facile delegare anche il pensiero, la riflessione, a un algoritmo.
Ci rivolgiamo alle app per ogni cosa: dove mangiare, come arrivare, cosa comprare. E ora, persino per creare contenuti, per esprimere un pensiero. È una comodità innegabile, certo. Ma è anche un campanello d'allarme. Quante volte ci fermiamo a riflettere sull'origine di ciò che leggiamo, di ciò che "creiamo" con un semplice comando?
Questa vignetta, questo blog, generati da una macchina, sono lo specchio di una realtà in cui la dipendenza dal digitale è diventata così profonda da offuscare la nostra capacità di agire, di pensare criticamente, di auto-organizzarci. Chiediamo risposte pronte, soluzioni immediate, e le otteniamo. Ma a quale prezzo?
Se un'intelligenza artificiale può suggerirci persino le nostre rivendicazioni, il modo in cui dovremmo lamentarci o meno, non è forse il momento di chiederci dove stiamo andando? Stiamo diventando semplici esecutori di algoritmi, anche nelle nostre espressioni più intime di malcontento?
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